Comitato Regionale

Emilia-Romagna

Quello che si potrebbe fare. Un racconto africano da Fonduigne

Ipotesi di progetti per la sicurezza dei pescatori a margine del "Silenzioso tour della solidarietà".

Il tramonto su un fiume africanodi Marco Tommasi


RAVENNA - Per ragioni che trascendono la comprensione umana, la Uisp ha organizzato dal 15 al 21 febbraio il "Silenzioso tour della solidarietà" da Bamako (Mali) a Dakar (Senegal), durante il quale un volenteroso e stoico manipolo di velociraptor ciclisti con sofisticatissime astronavi a pedali ha affrontato il caldo, le strade, le cadute, gli effetti dei farmaci antimalaria e dell'alimentazione pur di testimoniare (non molto silenziosamente, a dire il vero) la propria solidarietà ai locali. All'interno - o meglio, a lato - di questa gioiosa kermesse pedalatoria si è pensato - per una di quelle difficilmente spiegabili pieghe che spesso prendono gli eventi - di organizzare un'attività, almeno apparentemente, totalmente diversa, con l'intento di realizzare un vero e proprio progetto. Il tutto partendo dal presupposto che ci fossero problemi di sicurezza legati all'attività di pesca nel delta del fiume ......... ed in particolare nel villaggio di Founduigne. Per questo motivo tre Leghe Uisp hanno deciso di inviare personale in loco (Marco ed Irene del Nuoto, Gabriele per i Sub ed Andrea ed il sottoscritto per la Vela, con l'aggiunta di due rappresentanti della Lega Calcio per un ulteriore sotto-progetto) per cercare di capire quale fosse la situazione e per articolare un'ipotesi di intervento.

Tralasciando la parte ruotata del gioco (che abbiamo seguito a bordo dei pullman-appoggio con trasferimenti anche di quindici ore al giorno), la parte dei non-pedalatori si è articolata principalmente durante i tre giorni di permanenza a Founduigne, mentre il tour proseguiva instancabile ed implacabile verso Dakar. A conti fatti la realtà si è dimostrata abbastanza diversa da quanto ci aspettavamo. Dopo una serie di incontri con autorità, scolaresche, maestri, mogli di pescatori, sarti e venditori di oggetti d'artigianato, le attività si sono articolate e sviluppate autonomamente, per cui mentre nuotatori e sub si dedicavano all'attività con i bambini delle scuole locali - parte in acqua e parte in piscina - ed i calciatori facevano attività nelle scuole, Andrea ed io siamo andati in cerca di pescatori per tentare di capire se il problema all'origine della nostra presenza fosse legato alla costruzione delle imbarcazioni (piroghe a vela e motore lunghe da circa sei fino a oltre diciotto metri) visto che l'attività natatoria si era di fatto sviluppata non per i pescatori ma per i bambini. L'impresa non è stata facile, dato che buona parte dei pescatori non parla francese, ma alla fine l'incontro con Lamin - una sorta di tuttofare (pescatore, taxi acquatico, guida turistica) - ci ha permesso di trovare le chiavi della porta d'accesso ad un mondo davvero particolare, anche se certe dinamiche e certi comportamenti sono davvero universali ed in certi momenti potevamo pensare di essere a Porto Garibaldi o a Marina di Ravenna.

Certi della nostra missione, abbiamo cominciato a far domande a proposito dei presunti problemi di sicurezza ma ci è apparso via via sempre più chiaro che il nostro interlocutore - al quale si era aggiunto il locale maestro d'ascia Babakar - faticava a capire il tono ed il contenuto delle nostre domande. Per fare un paio di esempi, alla nostra domanda su quali fossero i problemi maggiori le risposte sono state: nuove reti per i pescatori ed i clienti che non pagano i carpentieri. Ora, dato che l'attività di pesca in senso stretto ed il recupero crediti esulano dai settori d'interesse dell'associazione (ma visto che c'erano molti funzionari Uisp di alto grado, ho comunque chiesto lumi - non si sa mai che ci fosse stata qualche modifica allo statuto di cui non ero a conoscenza...), abbiamo cercato di spiegare meglio le ragioni della nostra presenza e le possibili linee di intervento di un futuro progetto con il risultato di un dialogo sempre più surreale.

- C'è un servizio di guardia costiera o di soccorso?
- Sì, c'è una barca, ma è senza motore e non la usa nessuno.
- Avete giubbetti?
- Sì, ma nessuno li mette, perché tanto stiamo quasi sempre su bassi fondali.
- Ma se avete un problema, avete la radio a bordo?
- Qualcuno ce l'ha.
- Ma come date la posizione?
- Lanciamo un razzo e speriamo che qualcuno ci veda.

Accantonata l'ipotesi che il problema fosse squisitamente linguistico, perché il franco-bolognese ed il wolof-francese sono risultati molto simili, abbiamo insistito nell'interrogatorio ed alla fine Babakar ci ha detto che sì, a lui farebbe comodo un pialletto elettrico, ma allora sarebbe necessario anche un generatore, perché la corrente elettrica non c'è nel cantiere. Va detto che il "cantiere" è in realtà uno spazio in spiaggia con una rudimentale tettoia e gli strumenti di lavoro sono una sorta di zappa, un pezzo di legno duro, una pialla, una mazza ed uno scalpello mentre il materiale di costruzione è un tondino da edilizia, chiodi e legno di scarto. L'attività ferve (!?) alla mattina ed alla sera, perché per il resto fa troppo caldo per lavorare.

La prima giornata a Founduigne ci ha consegnato più dubbi che risposte, ma ci ha fatto entrare nella realtà del luogo e delle persone maggiormente che in tutti gli incontri ufficiali o semiufficiali dei giorni precedenti. Lamin ha raccontato di come, due anni prima, lui ed altre quaranta persone si fossero imbarcate su una piroga di venti metri per cercare di raggiungere l'Europa ed una volta raggiunte le Canarie sono stati presi in consegna dalle autorità militari, passati alla Croce Rossa e rispediti in patria, dopo aver pagato mezzo milione di CFA (un euro vale circa 650 CFA; per fare un paragone, un maestro guadagna circa centomila CFA al mese) per il passaggio. Il giorno dopo sveglia di buon'ora e, mentre io mi recavo con due taniche a cercare un benzinaio su un carretto tirato da un cavallo, Andrea organizzava assieme a Lamin la trasferta verso il villaggio nel quale avremmo incontrato Mamadou, fratello di Babakar e miglior maestro d'ascia (titolo che non esiste, visto che la denominazione usata era "charpentier"). Per l'occasione Lamin aveva attrezzato la sua piroga con una tettoia che evidentemente monta quando deve trasportare qualche turista. Con l'equipaggio al completo (Lamin al motore, Babakar ed un ragazzino a salpare l'ancora - un grappino fabbricato anch'esso con tondino) siamo salpati, dirigendoci verso il villaggio, distante due ore di navigazione. Bella giornata di sole (per i locali pieno inverno, visti i piumini indossati), vento sui 25 nodi e motore che - mai successo, in tanti anni di barca - va in moto al primo colpo. Durante il tragitto, abbiamo avuto modo di incontrare i pescatori di "crevettes" (gamberi) che, stando in acqua, trascinano le reti fino a riva ed altre imbarcazioni (ad una delle quali abbiamo passato una bottiglia di benzina) che si dedicano alla pesca di dorade, barracuda e ed altri pesci di buone dimensioni con lenze filate a poppa e rapala. Si naviga fra la costa desertica e distese di mangrovie; Lamin ci dice che ci sono stati tentativi di occidentali particolarmente astuti di "ottimizzare" l'attività di pesca, abbattere le distese di mangrovie, dedicarsi all'allevamento ed impiantare strumenti industriali di lavorazione e conservazione del pescato, ma che nessuno di loro accetterebbe mai una situazione del genere perché fra le mangrovie i pesci trovano riparo e si riproducono. Inoltre, nessuno va anche solo a pescare in quella che - senza tante formalità o burocrazia - è di fatto un'area protetta. E qui, la differenza con le nostre latitudini e le italiche astuzie si percepisce tutta.

Il paese di Fambine è privo di qualsiasi strumento "tecnologico" - fatta eccezione per tre lampioni alimentati ad energia solare, evidente retaggio di un qualche progetto occidentale - e quindi niente energia elettrica o bagni (un cartello accanto ad un mucchio di ghiaia e mattoni spiega che verranno realizzati grazie ad un contributo olandese). Vista la presenza di un ambulatorio oltreché di una moschea e di una scuola c'è il sospetto che almeno un generatore sia presente, ma non ne abbiamo trovato traccia. Tutti sono estremamente cordiali e disponibili, dal capo villaggio - seduto davanti alla moschea assieme ad alcuni altri - alla signora che sta nell'ambulatorio, dai bambini che chiedono di essere fotografati di continuo fino al velaio, che arma una vela (due rami non troppo storti e due sacchi cuciti assieme) per mostrarci il lavoro finito. Anche qui il cantiere è "a cielo aperto" ma Mamadou si limita a dirigere una decina di lavoranti (e quattro mogli e non ricordo quanti figli) che piallano, calafatano, segano. Ci sono otto barche di varie dimensioni a diversi stadi di costruzione ed alla fine della visita, fra le informazioni raccolte qui e quelle che ci fa fornito la giornata passata con Babakar e Lamin, siamo in grado di descrivere abbastanza fedelmente le tecniche costruttive, i materiali utilizzati, i tempi ed i costi.

Dal punto di vista tecnico le piroghe più grandi che abbiamo visto in costruzione sono lunghe 13.80 metri fuori tutto e 10.40 al galleggiamento; a prua ed a poppa, che sono identiche, il trave di chiglia prosegue oltre ed al di sopra della linea di galleggiamento, con forti slanci incurvati verso l'alto. Questo particolare pare non avere altra funzione se non ornamentale, dato che appesantisce notevolmente la barca alle estremità e non la rende adatta per la navigazione con onda formata (difficile peraltro da incontrare all'interno del delta). Il trave di chiglia è costituito da tre pezzi di mogano massiccio - le parti con nodi o imperfezioni che vengono scartate dalla lavorazione di mobili - che vengono segati in diagonale fino a farli combaciare. A differenza della maggior parte delle costruzioni conosciute, da qui non partono ordinate ma le tavole, di spessore di 3 cm, in tutto uguali a quelle utilizzate per impalcature in edilizia, vengono forate lateralmente con un trapano a mano e nel foro viene inserito un tondino da carpentiere che viene poi fissato, dall'altro lato, nel trave, anch'esso forato. In questo modo le due parti (trave di chiglia ed assi) vengono unite con questo sistema che non presenta giunzioni esterne (esistono un paio di similmadieri ma non strutturali, che sembrano avere più che altro la funzione di ridurre il momento torcente della barca, che è larga solo 1.60 mt. al baglio massimo), ma che presenta lo svantaggio della ruggine che consuma il tondino e di conseguenza il legno, senza che ci si renda conto di ciò. Per questo, la vita media di una piroga è attorno ai quindici anni, poi si recupera parte del materiale e si getta ciò che non è più utilizzabile. L'asse superiore è inchiodato a quello fissato alla chiglia e parzialmente sovrapposto, come una sorta di clinker; anche qui, chiodi di ferro ribattuti che non giovano alla durata ed alla solidità a lungo termine del tutto, causa ruggine (nel "vero" clinker i ribattini sono di rame).

In tutto ci sono due ordini di assi che formano il fasciame - parzialmente sovrapposto - che costituisce le murate delle piroghe. La stabilità è data dal trave di chiglia molto pesante, ma con mare formato si conferma l'impressione che questo tipo di imbarcazione sia poco adatta alla navigazione e poco sicura, dato che non esistono neppure riserve di galleggiamento e che chi si reca in mare aperto utilizza altri tipi di imbarcazioni. Il tutto viene calafatato con tela di sacco e polistirolo sciolto nella benzina - ottenendo un polimero base che viene usato per impeciare il tutto. Il Direttore del Museo della Marineria di Cesenatico ha trovato corrispondenze con il sistema costruttivo degli antichi romani; sta di fatto che prima dell'arrivo degli europei (il materiale utilizzato è tipico della nostra edilizia) le imbarcazioni era monossili, ovvero scavate in un unico tronco e quindi per forza di cose di dimensioni limitate, vista la scarsità di alberi di alto fusto, baobab a parte. Questo significa che non c'è una consolidata ed atavica modalità locale, ma che la costruzione è di ispirazione occidentale, mentre sono state mantenute alcune caratteristiche (i colori, prua e poppa uguali, le sporgenze ornamentali, etc.) legate alla tradizione. La poppa a canoa ha senso se i rematori si girano o se la pagaia che funge da timone viene portata ad una estremità o all'altra a seconda della direzione. In pratica la poppa o la prua vengono determinate di volta in volta, ma se c'è un motore (sia fuoribordo che entrobordo) questo determina senza possibilità di dubbio il senso di marcia ed allora - come avviene sulle unità minori - conviene dotare la barca di un vero e proprio specchio di poppa. E su quelle più piccole, in effetti, la poppa è a specchio, con fuoribordo appeso esternamente che viene sbarcato ogni volta che si disarma la barca, così come albero e velatura, mentre sulle unità maggiori i motori sono imbarcati con modalità entrofuoribordo, con un foro praticato ad un metro circa dalla poppa. Anche qui si sbarcano, ogni volta, armo e vela. Il timone o non c'è - per alcune manovre viene usata una pagaia tenuta saldamente su uno dei lati della barca da un uomo situato a poppa estrema e che funziona come i remi fissati lateralmente in uso prima dell'invenzione del timone appeso a poppa - oppure consiste in un pezzo di ferro quadrato di piccole dimensioni fissato lateralmente su un'asola ricavata in dritto di tondino piegato che attraversa la poppa trasversalmente all'asse longitudinale della barca.

Al ritorno, preso congedo dal capo villaggio, Lamin dà un passaggio a due abitanti del villaggio che verranno scaricati in prossimità di un altro centro abitato; vicino alle mangrovie incontriamo diverse altre barche, tutte in navigazione a vela, e possiamo renderci conto che in queste condizioni il concetto funziona: nonostante le piccole dimensioni delle vele e l'armo (una rudimentale tarchia, che Lamin ci assicura essere efficace alle andature portanti e fino al traverso) le barche scivolano sulla superficie calma dell'acqua. Resta da vedere il comportamento con venticinque nodi d'aria, come stamattina alla partenza. Di nuovo a Founduigne ci accolgono i racconti dei ragazzi che hanno fatto attività con i bambini: il loro entusiasmo, il voler comunque andare in acqua nonostante la mattina "fredda" e ventosa ci spinge ad immaginare che senso dare al progetto ora che appare sempre più chiaro che i pescatori hanno necessità che esulano in buona parte dalle nostre competenze e da quelle dell'associazione mentre i possibili problemi legati alla sicurezza sono probabilmente appannaggio di chi va fino in mare, ma lo scarso tempo a disposizione ci impedisce di cercare una conferma pratica a questa supposizione. Ci raccontano che i "bateaux ramasseur" coreani arrivano davanti alla foce dei fiumi, raccolgono i pescatori che escono in mare aperto con le piroghe, li utilizzano come manovalanza per una settimana di pesca nel golfo di Guinea per trenta dollari al giorno e li sbarcano. E mentre il pesce va verso la Spagna e di qui verso l'Europa (da qui proviene il 70% del pescato consumato nei paesi europei), i pescatori rientrano ai villaggi. Ed è proprio nel tragitto per e dai pescherecci d'altura, se effettuato con piroghe simili a quelle viste, che si verificano, probabilmente, i problemi di sicurezza. Le maestre ed i maestri ci raccontano poi l'altra realtà, quella di bambini che diventano uomini troppo in fretta e di bambine che sono già ragazze a undici anni: per tutti è stata una grande festa, per tutti, da domani, la vita tornerà ad essere quella di sempre. Le donne della cooperativa dei pescatori, alle quali è stato portato il regalo dei corsi di nuoto, ci parlano di un'altra realtà ancora e cioè della necessità di un bagno, perché in dodici ore di lavoro a pulire pesci, non hanno la possibilità di averne uno.

Ed allora oscilliamo fra l'occidentale buono che arriva a proporre mirabolanti progetti senza chiedersi se servano e l'africano che ha bisogno di un servizio ma non lo realizza, pur avendone la possibilità, perché ci pensa l'uomo bianco, che così si sente migliore. Se vogliamo uscire dal circolo vizioso creato da questi stereotipi, dobbiamo andare oltre le solite proposte ed i soliti progetti, molto d'immagine e poco di sostanza. E la sera, mentre sorseggiamo un pastis al locale "La cloche", gestito dall'immancabile ristoratore italiano (che ci coinvolge nell'immancabile discussione politica, che termina rapidamente, vista l'evidente distanza fra le rispettive posizioni), immaginiamo cosa potrebbe accadere se ci fosse una piroga a disposizione dei bambini delle scuole di Founduigne e dei villaggi limitrofi e se ci fosse la possibilità di avere qualcuno che si occupasse a tempo pieno dell'attività e se, ancora, la piroga e la persona fossero a disposizione per garantire un po' di sicurezza a chi naviga e magari anche un servizio di taxi gratuito fra i villaggi e di turismo responsabile. I costi di un progetto del genere sarebbero una frazione di quelli ai quali siamo abituati alle nostre latitudini: una piroga completa di motore fuoribordo costa circa 4600 euro; lo stipendio di un maestro è di 150 euro al mese e quindi di 1.800 all'anno. Poi bisogna contare il personale che va giù a seguire la costruzione ed a far formazione di acquaticità e nuoto, i viaggi e... ed intanto scopriamo che c'è una ditta di Ravenna che sta acquistando terreni poco distante e che c'è chi conosce il modo di portare giù materiale via nave e, come ci dirà due giorni dopo l'ambasciatore italiano a Dakar, che è possibile spedire materiale umanitario senza pagare tasse doganali, presentando un progetto alle autorità senegalesi e... e, citando il Dottor Frankenstein ("si pronuncia: Frankenstin"), l'impressione è che... si può fare... almeno da un punto di vista tecnico. Speriamo che - cosa che non accade spesso dalle nostre parti - la politica sia all'altezza del compito.

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